Giovani scrittori

Luca Costa, studente presso Liceo G.Galilei desidera mettere in mostra alcuni articoli e critiche riguardanti il mondo scolastico.

Commento al racconto “I giorni perduti” di Dino Buzzati

Una sera Ernst Kazirra si imbatte in uno sconosciuto che scarica bauli di sua proprietà in un fossato. In cerca di informazioni, Kazirra scopre i suoi giorni perduti, ne esamina tre e supplica lo sconosciuto di ripararli anche a costo di pagarli caramente, ma quest’ultimo scompare con i bauli al calar del sole.

Il tempo perso non è recuperabile. E’ frequente, specie nella società attuale, essere sopraffatti dalle ambizioni e dimenticarsi delle persone amate di cui ci si circonda. L’espressione “Lo sconosciuto scaricò la cassa e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro, che era già ingombro di migliaia e migliaia di altre cose uguali” suggerisce che l’azione non accade per la prima volta e rappresenta il modo per mezzo del quale, rendendosi conto degli errori commessi, è possibile quantificarne la frequenza. Riconoscere i propri errori significa anzitutto riconoscere i propri limiti, non come occasione per non impegnarsi in qualcosa, ma come necessità di essere aiutati; questo permette di riconoscere ed essere grati ai propri cari, a coloro in grado di amare veramente.

“Lo sconosciuto scaricò la cassa e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro, che era già ingombro di migliaia e migliaia di altre cose uguali”

Dino Buzzati, dalla Boutique del Mistero

In secondo luogo permette di distinguere le ambizioni personali dalla devozione ad una specifica attività, creando un taglio netto tra le due realtà.

Buzzati propone un insegnamento convincente: se come si è detto, è impossibile recuperare il tempo perduto fisicamente, è sempre possibile riscoprire la preziosità di ciò cui un tempo si era meno riconoscenti, per proseguire nel futuro adottando una diversa modalità di percezione della realtà.

Eneide: la scelta di un vinto

Enea fugge da Troia

Publio Virgilio Marone, nel suo poema epico intitolato “Eneide“, sceglie come protagonista Enea, un vinto e non un vincitore. Nella protasi del proemio, Virgilio lo presenta come un vinto, un uomo che da Troia se ne è andato sconfitto, vedovo e che risulta infine un profugo.

Il personaggio di Enea è molto diverso da quelli di Achille ed Odisseo: non ama andare in guerra, nè viaggiare, nè essere un leader e comandare un esercito. Non è un eroe dell’azione. Eppure nell’invocazione alla Musa Calliope, Virgilio mette in risalto la sua pietas, termine traducibile come la devozione pagana alla famiglia, alla patria e agli dèi:

Musa, ricordami tu le ragioni di tanto doloroso penare: ricordami l’offesa e il rancore per cui la regina del cielo costrinse un uomo famoso per la propria pietà a soffrire così, ad affrontare tali fatiche.

Virgilio a Calliope (Eneide, libro I, v.10-14)

Enea giunge nella “terra di Lavinio” ovvero la costa laziale

Inoltre, Virgilio si pone una domanda esistenziale, che non riguardo solo Enea, ma anche lui:

Di tanta ira sono capaci i Celesti?

Virgilio a Calliope

Ma allora perché Virgilio sceglie un uomo che ha perso tutto, che non ha più niente tra le mani e che si trova a navigare disperso nel mare?

Soluzione: obbedisce al Fato, e questo non lo identifica come un soggetto debole o rassegnato, costretto per forza divina a svolgere un compito, ma come un tenace.

Enea con in braccio il padre Anchise e il figlioletto Ascanio Iulo

Senz’altro l’obiettivo di Virgilio è diversificare il suo poema dagli episodi omerici, e nell’obiettivo di Virgilio si presenta dunque una realtà nuova, diversa e variopinta.

In questo tentativo di diversificazione, Virgilio coglie l’occasione per introdurre anche la sua figura personale: anch’esso, come Enea, infatti, nella sua vita è stato profugo e contrario all’azione (soprattutto quella di tipo bellico).

Ma la sua (quella di Viriglio) è una strategia per trasmettere valori di tenacia al popolo romano, valori che Enea ha appreso grazie alla sua pietas e alla sua sofferenza, valori che lo rendono un eroe paziente, forte, resistente e soprattutto un esempio di resilienza.

E’ anche l’azione del climax concettuale crescente che presenta nella protasi, partendo dal descrivere un vinto le cui aspettative e imprese lo porteranno a fondare una nuova e importantissima città.

Climax concettuale crescente (diagramma)

E’ dunque quello di Viriglio, un progetto per imparare da un vinto la strada per la vittoria e per il successo, fondamentale per un pubblico di lettori come i Romani dell’età neo-imperiale alla ricerca di fonti per il sostentamento e l’aiuto personale, ma non esclusivamente, per chi nutre il desiderio di ricominciare dalle proprie sconfitte.

La condizione femminile nella polìs greca

Nella polìs greca notevole importanza è affidata al protagonismo maschile, eppure affascina e incuriosisce conoscere quanto le donne fossero invece una voce fuori dal coro.

Spesso quando si parla di polìs è comune pensare alla vita politica e alla democrazia, al fatto che chiunque possa avere “parresia” (dal greco, libertà di parola) in un governo di tipo democratico. Considerando, dunque, che chiunque possa esprimere la propria opinione, si è portati a credere che, allora, tutti i cittadini della polìs greca aderiscano alla vita pubblica.

Invece, già alla genesi della polìs, soltanto i cittadini di sesso maschile, maggiorenni e liberi, possono prendere parte alla vita pubblica. Anche in epoca più tarda, dopo la riforma di Clistene, avvenuta nel 508-507 a.C., all’ecclesìa (ovvero l’assemblea popolare), partecipano tutti i cittadini ad esclusione di donne, schiavi e stranieri (metèci).

La figura femminile è destinata a una vita dietro le quinte. Questo fenomeno è ricorrente nella maggior parte delle poleis greche. Eppure anche le donne, in secondo piano, possiedono abitudini e rigori da rispettare durante la loro vita.

Ad esempio, la società spartana si preoccupa della salute delle donne, costrette ad allenarsi nella corsa e praticare la ginnastica. Il fine della sorveglianza spartana è garantire alle donne un fisico che ne permetta l’ospitazione dei figli durante la gravidanza, pronti per diventare forti e sani soldati.

Polìs di Atene

Anche ad Atene, verso la fine del V sec. a.C., l’avvocato Lisia, in un suo testamento intitolato “Per l’uccisione di Eratostene“, presente alcune caratteristiche delle figure femminili. La donna è un’amministratrice sagace ed economa che dirige la casa, esercita il suo potere sui sudditi dell’abitazione, provvede ad allattare e crescere il figlio, coricandosi accanto ad esso per impedirgli di strillare.

Un altro contemporaneo di Lisia, Senofonte, descrive con chiarezza il motivo per cui le donne devono restare vigili della casa. In tal modo, infatti, un’assidua sorveglianza garantisce alla donna di vedere, ascoltare e chiedere il meno possibile. Oltre a questo, è incaricata di curare tutti i servi che si ammalano ed accettare che, per volontà divina, il suo fisico non sia predisposto alla guerra e al combatti

mento, diversamente dall’uomo.

Senofonte

Un ultimo tracciato storico giunge al tragediografo ateniese Euripide, che nella sua tragedia intitolata “Medea” descrive il dolore e la disperazione di una donna ateniese. Quest’ultima si chiama Medea ed è la protagonista della tragedia. Dopo essersi innamorata di un uomo, concepisce con questi tre figli. Con il passare del tempo, in veste di madre, Medea si rende conto della sfortunata sorte di essere nata donna, al punto di giungere, al termine della tragedia, ad uccidere i suoi figli. Euripide, in particolare, descrive quanto Medea desiderasse morire, poiché le donne non sceglievano ma venivano scelte dal loro marito e costrette a non separarsi da lui, motivo di scandalo.

In conclusione, si riporta una citazione, dal mondo di ieri, di Medea, dall’omonima tragedia. Quest’ultima mette in risalto l’emancipazione e la sofferenza della condizione femminile nella polìs greca:

Vorrei tre volte trovarmi in battaglia che partorire una sola volta“.

Euripide, dalla tragedia “Medea”

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